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Con il passare del tempo tante parole languiscono e rischiano di morire; con esse finiscono un mondo, una civiltà, un’etica un modo di vivere e di sentire. Da quanto tempo non sento più rivolgere a una bambina o una fanciulla il complimento: stelina d’ora, vocativo tenero e dolce, che fioriva sulle labbra delle mamme, delle nonne e delle zie! Anche noi, da ragazzi, al tempo dei primi richiami del piccolo Cupido, ficcando un po’ di bergamasco nell’italiano pressoché esclusivo che ci era stato imposto da una scuola ostinatamente dialettofoba, ci azzardavamo ad apostrofare la ragazza del cuore con espressioni del tipo stèla dora, che in italiano suona sic et simpliciter “stella dorata”.
Ma volete mettere la forza suasiva e la potenza di suggestione del bergamasco? E quando da bambini ci sentivamo dire; s-cèt car del Signùr, che in italiano suona letteralmente “figliolo caro del Signore”, ci sentivamo avvolti da un’onda di bontà e di affettuosa gentilezza. La stessa sensazione provavano le bambine allorché erano apostrofate con la soave locuzione appellativa s-cèta bèla del Signùr: il richiamo alla divinità  costituiva il massimo dell’ apprezzamento possibile, aveva riscontri simili se non identici in altre lingue appartenute a grandi civiltà antiche, dava la misura della bontà e della squisitezza di cui era capace l’anima popolare. Non riesco a rintracciare nell’italianese contemporaneo locuzioni che per bontà e gentilezza stiano al pari di quelle che ho appena ricordato, neppure ricorrendo al linguaggio infantile, che pure ha voci antichissime e appellativi di straordinaria tenerezza, oggi però usati con eccessiva affettazione. In tempi di diffusa povertà materiale i sentimenti abbondavano. Il bisogno di affettività, il desiderio di trovarsi al centro dell’attenzione, l’ansia di ottenere l’approvazione altrui  forse sono innati nell’essere umano, che soffre sempre di un certo egocentrismo. Ma al tempo della nostra puerizia trovavamo sempre le persone dall’animo sensibile che ci deliziavano dicendoci s-cèt car del Signùr se eravamo maschietti e s-cèta bèla del Signùr se eravamo femminucce. Soavità semplici, dolcezze pure che solo il tanto vituperato dialetto, nella sua immediatezza e nella sua utenticità, sa raggiungere.
Da: "Il Bergamo" del 20 Maggio 2007



Dàlmen, zögn 2010